mercoledì 19 gennaio 2011

happy wives

La signora V. ti trascina nella farmacia sotto casa senza smettere di chiacchierare, e ti racconta che lì all’inizio c’era un negozio di cappelli. “Di cappelli, capisci? Sembrava di stare a New York, io ne compravo almeno due all’anno, soprattutto quando portavo i capelli più corti. Ne ho ancora uno di velluto bordeaux da qualche parte”. L’inizio per la signora V. coincide con l’anno in cui si è trasferita, fresca di matrimonio e con i cartamodelli in valigia, in questa zona residenziale a due passi da Milano, a due passi dall’autostrada, così verde senza essere nemmeno vera campagna. Una scelta che si è rivelata da subito vincente, perché “all’inizio eravamo in pochi, tutte coppie appena sposate, qualcuna aveva anche il pancione. Pensa che simpatico, i nostri figli hanno cominciato a frequentarsi prima di nascere!”. Trentacinque anni, e i palazzi color rosso mattone sono solo leggermente scrostati, tutti affiancati, progettati secondo un’architettura poco fantasiosa ma con idee molto chiare. Soprattutto una: la gente qui deve stare così bene da non avere voglia di andare più in là di quella specie di grossa portineria all’orizzonte, quella oltre la quale si intravedono sterpaglie svergognate e un autobus arancione che fa avanti e indietro dalla città.
“È stata una scelta comune quella di decidere democraticamente le decorazioni da mettere, uguali per tutti e messe fuori lo stesso giorno. Sennò sai che disordine”. Mi indica le luci che si arrampicano senza troppi slanci attorno a un recinto bianco e a qualche albero. In farmacia la fila è lunga, c’è anche il numeretto, la maggior parte di quelli che aspettano è sopra i sessant’anni, e nessuno si lamenta dell’attesa. Dalle vetrine belle grandi si vede un parco giochi che sembra quasi nuovo, sulla destra parte un ponte dello stesso colore dei palazzi. “Credi che esageri? Io se non fossi venuta qui non so se sarei riuscita a tirar su due figli come ho fatto. Qui siamo tutti amici, e poi li vedi i ponti? Un’idea fantastica. Grazie a quelli i bimbi non devono attraversare la strada, sono praticamente sempre al sicuro. Una madre qui può stare davvero tranquilla”. Tu annuisci, e pensi a questi bambini che non attraversano la strada, e a cui le madri non dovranno insegnare la cautela di guardare a destra e sinistra e il verde per i pedoni, e alla loro vita felice senza strisce pedonali.
Sotto i portici, al riparo dalla pioggia e dalle pozzanghere cittadine, si cammina bene. La signora V. saluta calorosamente alcuni, mentre è un po’ più scostante con altri che a malapena le rispondono. Sorride un po’ tesa, mi racconta che a volte in un posto così può capitare gente che non ama proprio integrarsi, che va alle riunioni di condominio per cambiare questo e quello, che suo marito per fortuna è nel consiglio direttivo e finché ci sarà le cose si faranno per bene. Le racconto della cena, quella di giovedì. La signora V. mi ascolta attenta, chiede dettagli. Sembra quasi le interessi davvero, ma mentre ti ascolta si guarda attorno, fa un cenno, annuisce una volta di troppo per mimare una curiosità che non ha. Dal fioraio, un tipo indaffarato a cui lei si rivolge come se fosse uno dei suoi più cari amici a cui sta affidando la sorte dei figli sul letto di morte, ordina un centrotavola per sé e uno per la nuora. “Lei ha scelto di lavorare, sta in uno studio legale in centro, è sempre impegnatissima. Poverina, non è nemmeno riuscita a fare l’albero. Dico, almeno per i bambini. Noi l’abbiamo fatto la settimana scorsa, tutto blu. Troppi colori non mi piacciono, poi non si capisce niente”. Ti immagini la sua vita dorata, lei che non ci pensa nemmeno a cercarsi un lavoro, i figli da crescere e tanto tempo libero. Ma lei ti smentisce, dice di essere sempre così indaffarata. Segna sul calendario ogni cosa, il pezzo di manzo da ordinare al macellaio, il compleanno della dirimpettaia, il divano da rifoderare. Durante le feste gli impegni si moltiplicano, i parenti vengono tutti qui, è così comodo e a lei piace cucinare. Ti strizza l’occhio maliziosa e aggiunge: “E poi così non mi perdo la partita di bridge di Natale, quella del club. Non è mica per le carte, sai? Io sono una di quelle che può farne a meno, ma è la tradizione. Cosa penserebbero se non andassimo? E poi così possiamo farci gli auguri, stare un po’ insieme”.
A casa sua, un posto che le ho sempre invidiato perché sembra uno di quegli appartamenti modello usati dalle agenzie dei condomini di lusso per mostrarti come potrebbe essere la tua vita se metti la tua firma qua, qua e poi anche qua, mi offre un caffè. Mentre l’espresso scende rumorosamente nella tazzina, lei prende la mia giacca e la borsa e le fa sparire, è come se nemmeno noi due fossimo qui, in questo salotto beige e verde, con le luci blu dell’albero, due angeli di ceramica che reggono una candela, un calendario dell’avvento con le finestrelle tutte chiuse. Usciamo sulla terrazza coperta, così possiamo fumare. Non fa freddo e le poltroncine sono asciutte. Le squilla il telefono, ma dopo aver controllato il display lo rimette via, stringendo appena le labbra. “È mia madre, vuole sapere se ho bisogno d’aiuto per la cena della vigilia. Figuriamoci”. I balconi accanto hanno la stessa sequenza di stelle di natale, bianche e rosse, che ha il suo. Siamo al primo piano di un condominio che di piani ne ha otto. L’unica scelta sensata, secondo lei. “Se stai all’ultimo piano vedi tutto quel grigio che c’è in lontananza, tutto quello che c’è oltre gli alberi. E poi qui in basso siamo più vicini ai portici, e a volte si sente la gente che chiacchiera. È come non essere mai soli”.

lunedì 2 agosto 2010

questo è il paese dell'amore

- Poi ti pare che uno ti chiama alle due di notte per dirti che ha avuto un
un incidente e poi non si fa più sentire?
- Vabbè, ma magari c'avrà avuto da fare. Il carro attrezzi, le medicazioni.
- No, non ci si comporta così. Lui deve capire che la nostra storia è arrivata
a un punto in cui non può sparire per delle ore mentre io sono lì in albergo
a preoccuparmi. Il mattino dopo niente. Ho fatto colazione, sono stata in
piscina fino all'ora di pranzo e quello ancora niente.
- Eh, ma stava cercando di prendere un aereo, aveva altre priorità.
- Altre priorità? Più prioritarie che dire alla tua fidanzata "sono salvo, sono
vivo, arrivo alle quattro?"
- Ah, quindi poi è arrivato?
- No, ha corso come un pazzo ma ha perso l'aereo. Quel demente.
- Ma povero. L'incidente, il nervosismo.
- Tu mi devi sempre dar torto. Quelli che erano con me hanno tutti quanti detto
che sono una stupida se gli permetto di comportarsi ancora così.
- E che dovresti fare? Mollarlo perché non ha un rapporto morboso col telefono
e ha pensato soltanto a prendere quel cazzo di aereo invece di spiegarti per
filo e per segno il suo percorso? Eddai.
- Parli bene tu che convivi. Tu che sai sempre dov'è e cosa fa.
- ...
- Poi io avevo preso questa stanza col terrazzino, per lui era la prima volta in
Sardegna. Avevo fatto tutto per lui.
- Mi spiace. Vacanza rovinata, eh?
- No, ma sai, ero con gli altri. Alla fine hanno insistito che restassi. Ma tu lo
sapevi che G. non sta più con T. e che quest'anno s'è portato la sgallettata in
vacanza? Mica scema la tipa, L. mi ha detto che a settembre G. passa al quinto
piano.
- E T.? Non andavate in vacanza insieme da tipo dieci anni?
- Massì, ma te l'ho detto. Giusto per rispetto di G. Perché io ogni volta che la
vedevo con tutta quella verdura nel piatto, e 'sta storia che non ci rendiamo
conto, che sprechiamo la nostra vita. Ha parlato quella che ha ereditato la
magione in Maremma.
- Vabbè, ma quindi ti sei divertita?
- Sì, alla fine si può dire che sono stata bene. Quando sei con gli amici.
- E lui?
- Eh, lui ha perso l'aereo. C'ha le ferie contate. Alla fine è rimasto lì.
- Povero.
- Eccerto, povero lui. Io, invece, costretta a stare ogni sera a cena un tavolo di sole coppie sono miss fortunella.
- Però almeno eri in vacanza. Al mare.
- Sì, ma non hai idea dell'ansia.

venerdì 16 luglio 2010

Almeno la forma

Il signor D. era uno che conosceva a memoria molte più regole di quante l'umana convivenza potesse tollerare. Le regole lo facevano sentire al sicuro, sovrano di un regno minuscolo ma tignoso come solo un condominio può essere. Lo potevi incontrare al mattino, mentre fintamente distratto misurava a occhio l'altezza delle siepi del giardino di quelli arrivati un mese prima. A volte, accorgendosi di essere osservato, fingeva di chiamare il figlio, o il cane, switch senza fantasia, muoveva la testa come in preda a un tic al rallentatore, girava su stesso senza riuscire però a distogliere lo sguardo dal dettaglio che lo infastidiva.

E allora produceva cartelli. Plastificati, colorati, con velleità sarcastiche proprie di chi invece è molto serio ma ha paura che un giorno, da dietro quell'albero potato male o da una parete scrostata per l'umidità, salti fuori uno che lo prenda schiaffi. "Ti piace che in casa tua sia tutto in ordine e pulito, hai comprato anche dei cestini per la differenziata davvero belli. Ma quando passeggi nel giardino comune, dimentichi che non puoi buttare a terra i tuoi mozziconi. Dai, fai uno sforzo. Questo spazio è anche tuo". Col risultato di essere più antipatico e meno efficace di una pubblicità progresso, e di trovare i suoi cartelli tagliuzzati, lanciati come pericolosi frisbee oltre la siepe del suo curatissimo giardino, commentati con un laconico "Pirla" scarabocchiato col pennarello indelebile.

Ma D. era un entusiasta, e nemmeno quando la realtà gli sputava su quella faccia sorridente tutto il suo disprezzo lui smetteva di credere che la vita è bella.
Aveva iniziato a perdere i capelli a 21 anni, un'alopecia maligna che lo aveva derubato in poche settimane del colore al centro della testa, lasciandogli questo cerchio bianco, perfetto, per ricordo. Montato su un corpo scoordinato e insicuro, eppure sempre apparentemente contento, soddisfatto. Si era sposato con una donna che già al secondo appuntamento lo trovava terribilmente noioso, ma a volte tutto è preferibile quando sei stata mollata da uno che ti confessa che "non riesco a mentirti, non ti amo da un anno ormai". I suoceri ne avevano subito percepito la malleabilità, rinforzando il loro potere d'azione sulla giovane famiglia grazie a un generoso prestito per l'acquisto della casa. La casa che D. amava più di tutto, e che ogni domenica apriva le porte ai due compiaciuti anziani, che ancor prima di salutare si piazzavano in soggiorno a elencare errori di stile e scelte improrogabili sul colore delle pareti. Poi si sedevano al fresco, e mentre D. grigliava per loro costose bistecche, borbottavano tra loro ignorandolo.

Ma D. amava svegliarsi e spazzare via le foglie dal vialetto, uscire col cane, dare un consiglio non richiesto al vicino di box, inventare nuovi cartelli, colorati haiku di aggressività repressa. Aveva tutto quello che nella cassetta degli attrezzi altrui mancava, e amava tutto ciò che era meccanico, fisico, probabile, rispettoso delle regole, appunto. Anche di quelle grammaticali, a cui era affezionato per via di una maestra di terza elementare che era solita elogiarne la precisione della scrittura, che mai si prendeva il lusso di uscire dalle righe.

Il giorno in cui D. uscì di casa a piedi, con la maglietta ancora sporca del terriccio in cui aveva piantato le ortensie, la moglie non se ne accorse nemmeno. Il bicchiere di prosecco ghiacciato, il terzo quel pomeriggio, la teneva a distanza dalla rabbia per l'ordine in cui D. aveva incasellato la loro quotidianità, una costellazione di post-it sugli interruttori ("solo la luce del sole è gratis"), sulla dispensa ("non credo che i biscotti ti saranno grati per l'ora d'aria che gli concedi lasciando aperta la confezione"), sul frigo ("sei sicuro che qualcuno non viva qui dentro da troppo tempo?").

Pensarono tutti che a ferirlo fosse stata la scoperta, ma ignoravano che D., attento com'era ai dettagli, sapesse ogni cosa. La sofferenza non lo aveva mai spaventato. Di quel cartello, un dozzinale foglio A4 appeso storto sulla saracinesca del box, se ne accorsero solo il mattino dopo. "Tua moglie ti fà le corna". Eccheccazzo, almeno la forma.

mercoledì 14 luglio 2010

grey gardens

"E quindi, mi stavi dicendo, lì dove sei adesso ti trovi benissimo"
"Sì. Abbiamo un bel giardino. D'estate ci puoi mettere le sdraio e leggere, perfino addormentarti"
"Ma non avevi chiesto il full time?"
"Sì, ma che c'entra?"
"No, niente. Pensavo a quando lo trovi, il tempo di leggere in giardino"
"Vabbè, il sabato, la domenica, quando la sera torno a casa e il bambino me lo tengono i miei"
"Ah, già. Come sta il bambino?"
"L'abbiamo mandato al mare coi nonni"
"Quindi ora puoi leggere tantissimo"
"Eh, magari. Devo ancora sistemare tante di quelle cose, in casa. E poi ieri mi è sembrato di vedere un ragno in cucina, non ho nemmeno il coraggio di guardare"
"Vabbè, col giardino è il minimo, un ragnetto"
"Ma tu lo sai come sono fatta. Odio gli insetti, di qualunque dimensione e forma. Comunque niente, che poi tra andare avanti e indietro, e prendi tre mezzi, e fai la spesa, e skypa X che resterà a Shangai ancora altri 6 mesi e sente tanta nostalgia di casa, alla fine il tempo..."
"..."
"..."
"Epperò ti trovi benissimo"
"Sì, guarda. Non capisco quelli che hanno bambini e comprano case in città. Vuoi mettere d'estate quanto è bello avere un giardino?"